sabato 23 settembre 2017

Opere da viaggio: un lavoro a quattro mani



Opere da viaggio è un lavoro a quattro mani con una tecnica che un po’ semplicisticamente si potrebbe definire collage. In realtà più propriamente sono opere-oggetto che ibridano fotografie (provini e frammenti fotografici) con disegni, schizzi e altri possibili materiali vari; il tutto montato su ex contenitori trasparenti per diapositive. La suggestione di una forma libro è stata inoltre accentuata da un retro-copertina ricavato da elementi vari (un’intera stampa fotografica, cartine geografiche, ecc.). L’origine di questo lavoro si può far partire da una produzione di ‘scatole poetiche’ all’interno di un’installazione “Omaggio a Primo Moroni: Philip Dick i centri sociali e gli ombrelli di luce” (qui)  al Centro Sociale Leoncavallo nel 1999. Una ricerca proseguita poi nei piccoli collage “Opere di piccolo formato” alla Galleria degli Artisti nel 2012 (qui) e nella mostra “Noi non camminiamo mai soli” (qui) alla libreria Isola nel 2015. Piccole opere, piccoli oggetti che richiedono una certa attenzione e una lentezza nella visione da cui le tendenze moderne dell’arte spesso tendono ad allontanarci. 


Ma cosa significano e, soprattutto, come li fate? Ci viene spesso chiesto. C’è un progetto iniziale? Come si dispiega il racconto, sempre che un racconto vi sia, soggiacente, all’intersecarsi di queste immagini? La nostra ricorrente risposta, in questi casi, è che il significato lo dà chi osserva l’opera; il racconto chi la legge in quel momento. Noi abbiamo operato per suggestioni, per assemblaggi istintivi, spontanei, costringendoci a selezionare in modo sempre più stringente fino al risultato che avvertiamo più giusto. Solo istinto allora? Puro inconscio? Sì, tenendo conto però che l’inconscio di chi lavora artisticamente è il prodotto di una storia personale di lavoro costellata di studi, tentativi, errori, prove e ancora prove. Un piccolo o enorme, a secondo dei casi, patrimonio di lavoro che fa passare per istintivo e immediato un modo di operare che in realtà è ben più mediato e meditato. E il racconto, la narrazione che si avverte scaturire da queste immagini assemblate assieme? È solo ausilio di chi osserva e legge dall’esterno? E per i produttori, per chi fa l’opera? Anche chi fa può in una certa misura (se pur con più difficoltà) distanziarsi e offrirsi al libero gioco delle interpretazioni, chiarendo altresì che le proprie non possono che essere, paradossalmente, più opinabili, in quanto provenienti proprio da chi è coinvolto come autore. L’autore fa, non sa; offre un significato che gli sfugge e che può ritornargli solo attraverso quei significati plurimi e diversi tra loro che osservatori esterni siano in grado, e vogliano, offrirgli. 




martedì 5 settembre 2017

Presentazione "Opere da viaggio"


Se guardiamo la fotografia nella sua dimensione fisica e emozionale e non semplicemente nel suo carattere di immagine riproducibile all’infinito, non possiamo non vedere quanto la sua chimica, il suo supporto materiale, il tempo di ripresa, di sviluppo, di trasmissione dell’immagine siano pervicacemente legati alla nostra corporeità tattile, olfattiva e a tutto il nostro sentire fisico, e ancora ai nostri tempi soggettivi, emozionali. Difficile vederne la continuità nel mondo “immateriale” e diffuso (nel proliferare dei più svariati mezzi di ripresa) del digitale. Un mondo legato ad un antico dio è morto e un nuovo dio, o forse più dei, ne hanno preso il posto. In questo lavoro che qui presentiamo, in una commistione a quattro mani tra fotografia e disegno, si è voluto evidenziare proprio il carattere di unicità della pratica fotografica nella sua breve ma intensa storia. Una unicità che può permettersi il confronto e perfino l’ibridazione proprio con la sua storica rivale: la pratica pittorica, piuttosto che con il suo presunto successore tecnologicamente più avanzato. Certo, stiamo parlando di una pratica, quella fotografica, finita; che ha possibilità d’avvenire solo in termini di nostalgia o di hobby con gusto retrò. Ma è una pratica la cui storia resta comunque inscritta nei nostri corpi novecenteschi e che resterà in quelli del nuovo millennio sotto forma di traccia, impronta indelebile nel percorso filogenetico della nostra specie. Opere da viaggio sono pertanto la memoria di un sentire e di un vedere non più attuali ma che continueranno a permanere come memoria del corpo. L’unione con la pratica artistica per eccellenza, quella capacità che risale agli albori dell’uomo: l’incidere segni e spargere colori su superfici materiali sta qui a rappresentare, in questi lavori ibridi, il senso di un viaggio che non può terminare se non con la fine del viaggio umano. Dentro plastificati facsimili di copertine di libri, in realtà vecchi contenitori trasparenti di diapositive, si dispiegano nuove configurazioni visive che annunciano un nuovo percorso di viaggio, quello delle memorie delle cose morte: la fotografia, in prima istanza, ma anche la pittura, almeno in quell’idea più consueta di pura imitazione del reale (distrutta fin nelle fondamenta da tutta la variegata esperienza artistica del Novecento). È un viaggio, qui esemplificato soprattutto dall’elemento fotografico più semplice: il provino a contatto, e dallo schizzo, disegno abbozzato e altri resti pittorici; elementi poveri per un percorso che si immagina lungo: il percorso delle sopravvivenze, dei resti e delle eccedenze che continueranno a insidiare, con esiti imprevedibili, un mondo futuro spettralmente dominato da un immaginario virtuale, tanto più immateriale quanto più innestato sotto pelle. Sotto quella nostra pelle che ancora ci ostiniamo a voler abitare. 


giovedì 22 giugno 2017

Andrea Maiello: "Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli" 3^ parte

Urbino: Casa della Poesia

Un terzo tema che attraversa le tavole di Marisa Bello e Giuliano Spagnul - e che permette di dividere i quadri in tre insiemi, tutti costituiti da quattro tavole - è quello della nascita. Se non stessimo parlando di Pinocchio, sarebbe stato naturale partire da qui: la logica impone che la nascita sia la premessa necessaria per la metamorfosi e la morte. Pinocchio, tuttavia, non è un libro che segue la logica, e il suo intreccio rende precaria ogni gerarchia. A ben pensarci la nascita di Pinocchio è già una metamorfosi: Geppetto costruisce un burattino, ma il pezzo di legno che compare all’inizio del romanzo può ascoltare, parlare, sentire dolore e solletico. Ha perfino dei precisi tratti caratteriali, visto che è dalla sua insolenza che nasce il bisticcio tra maestro Ciliegia e Geppetto. E ancora: nel finale del romanzo Pinocchio si addormenta burattino e si sveglia bambino in carne e ossa, ma la presenza del vecchio burattino inanimato sulla seggiola rende difficile capire da dove provenga il suo nuovo corpo e cosa sia accaduto di preciso (a rigore, il legno non si è trasformato com’era accaduto nel Paese dei Balocchi, tant’è che nel finale abbiamo due Pinocchio, uno di carne e uno di legno). Metamorfosi, morti, nascite si legano in modo così stretto, nel testo di Collodi, da rendere spesso difficile un’analisi separata dei tre temi.

C'era una volta


            La prima tavola in cui è possibile rintracciare il tema della nascita si intitola C’era una volta. Il titolo riprende l’incipit del romanzo, in cui Collodi, dopo aver utilizzato la formula introduttiva tradizionale delle fiabe, non resiste alla tentazione di destabilizzare il lettore presentando un protagonista del tutto insolito («C’era una volta…. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. — No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno»). È significativo che per la tavola sia stato scelto questo titolo, perché sottolinea bene, mi pare, la volontà di rappresentare non tanto la nascita del burattino (pur presente nel quadro), quanto l’origine della narrazione, che sarà la vera protagonista del libro parallelo. Manganelli si sofferma con attenzione su questa «frode iniziale», che «ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa»: proprio su questo re assente inizierà infatti a prendere forma la prima storia parallela. Ma non per questo dimentica il pezzo di legno: «quel legno», scrive Manganelli, «è materia che chiama la distruzione e la cenere, e insieme vuole diventare e trasformarsi». L’inizio della storia racchiude già tutto il complesso impianto simbolico che sarà al centro del libro parallelo, e porta in sé, in nuce, quella vocazione alla morte e alla metamorfosi che inseguirà Pinocchio per tutto il romanzo.

Nel paese di Acchiappacitrulli


            Acchiappacitrulli è la tavola dedicata al luogo in cui Pinocchio si reca, nel capitolo XIX, per denunciare il furto delle monete d’oro che il Gatto e la Volpe hanno realizzato ai suoi danni. Nel mondo alla rovescia di Acchiappacitrulli, essere un «povero diavolo» è una colpa: per questo Pinocchio, nel momento in cui chiede giustizia, viene arrestato e condannato a quattro mesi di prigione. Sarà liberato in seguito a un’amnistia, ma solo dopo aver assicurato al proprio carceriere di essere un «malandrino» e di avere quindi diritto alla scarcerazione. Come le morti e le metamorfosi, anche le nascite, in Pinocchio, possono essere simboliche, e dietro questa disavventura di Pinocchio Manganelli intravede una storia parallela. Nel mondo distopico di Acchiappacitrulli Pinocchio vive la sua catabasi, una degradazione dalla quale uscirà rigenerato. Della pena di Pinocchio, osserva Manganelli, «non sappiamo nulla, quasi fosse una sospensione di vita»: tornerà dunque alla vita solo quando la pena avrà fine. Il carcere è, per l’innocente Pinocchio, il contrappasso necessario per accedere simbolicamente ad una nuova vita.

Sapore di madre


            Il tema della nascita è evocato fin dal titolo nella tavola Sapore di madre, la seconda che Marisa Bello e Giuliano Spagnul dedicano alla Fata, uno dei personaggi più affascinanti del libro di Collodi. «Dovunque sia», scrive Manganelli, «in questo libro senza Re, essa è la Regina, la Regina solitaria ed infeconda, la Signora degli animali, la vecchina, la donnina stanca sotto il peso delle brocche, la padrona della Lumaca, la Bambina morta; ma anche, la metafisica adescatrice di un fratellino, un figlio». La Fata è ubiqua, in Pinocchio: anche quando è assente, se ne percepisce la presenza o se ne sospetta l’intervento, spesso mediato dagli animali che mostra di saper governare secondo i suoi desideri. L’oscuro rapporto che lega Pinocchio e la Fata attraversa tutto il Pinocchio parallelo e occupa alcune delle sue pagine più belle. Manganelli riconosce tra Pinocchio e la Fata un legame occulto: la Fata era Bambina ed è cresciuta, a differenza di Pinocchio, che vorrebbe crescere e non può. «Entrambi mancano, dai lati opposti, l’umano» e «questa posizione intermedia, centrifuga, li lega duramente». La vocazione alla maternità della Fata trova un destinatario perfetto in Pinocchio, che non è mai stato generato e che  per tutto il romanzo sarà irretito dalle dolci sevizie dell’unica madre che gli è possibile.

Il pescecane



                L’ultima tavola, intitolata Il Pescecane, è dedicata a uno degli animali più rappresentativi del romanzo di Collodi: è nel ventre di questo pesce, infatti, che si conclude finalmente la ricerca di Geppetto. Ma il  Pescecane è anche uno dei personaggi più terribili, mostruoso fin dalle descrizioni con cui viene evocato nei capitoli precedenti, che lo rappresentano «più grosso di un casamento di cinque piani». il Pescecane è animale brutale e violento: noto tra al Delfino per la sua ferocia, ci viene presentato addirittura con un soprannome («l’Attila dei pesci») che si è guadagnato «per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità». Un simile dispensatore di morte appare del tutto agli antipodi rispetto al tema della nascita. Eppure il Pescecane è l’unico personaggio che abbia in un certo senso partorito Pinocchio, portandolo alla luce dal suo ventre. Pinocchio, scrive Manganelli, «è immerso in un corpo, nei suoi umori viscidi; gli è stata imposta un’esperienza fetale, che deve subire […]. Il Pescecane appare come una versione infinitamente fonda della madre, qualcosa di casualmente gravido, gestante degli abissi, bocca divorante navi e vegliardi e burattini, orifizio che, negli stessi singulti della decadenza, assonnatamente genera». Ed ecco che Pinocchio, infine partorito dal Pescecane, torna al mondo mutato nell’animo, pronto finalmente ad assumere il ruolo di figlio nei confronti di Geppetto e della Fata. Il capitolo successivo lo vede prendersi cura di entrambi diligentemente, con abnegazione e spirito di sacrificio: questo parto paradossale - il solo in qualche modo confacente alla sua natura eccentrica - lo restituisce al mondo profondamente cambiato. Rinato, trasformato, o forse in qualche modo già morto: un bambino vero prenderà presto il suo posto e del vecchio Pinocchio non rimarrà che «una reliquia», «una salma». Ma, conclude Manganelli, «quel metro di legno continuerà a sfidarlo».

martedì 6 giugno 2017

Andrea Maiello: "Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli" 2^ Parte

Urbino: Casa della Poesia

Un altro tema di Pinocchio che Manganelli porta in superficie nelle sue pagine “parallele” è quello della morte: il burattino di Collodi, infatti, si trova spesso in condizione di rischiare la propria vita - ed è una condizione bizzarra, a ben pensarci, per un personaggio che a rigore non possiede nemmeno un corpo mortale. Il corpo di Pinocchio ha una sensibilità misteriosa, che obbedisce a leggi imprevedibili: scopriamo, quando Maestro Ciliegia lo lavora con la pialla e con la scure, che è capace di provare solletico e dolore, ma non mostra alcuna sofferenza quando, tre capitoli dopo, il burattino si addormenta con i piedi sul caldano e il fuoco glieli brucia completamente. Non è del tutto chiaro se Pinocchio possa morire: quel che è certo è che la morte lo sfiora di continuo, e Manganelli trova così interessante questa prossimità di Pinocchio con la morte da arrivare a congetturare che l’intero romanzo sia in realtà costruito attorno a questo tema occulto. Marisa Bello e Giuliano Spagnul sembrano seguirlo in questa lettura dedicando un gruppo di tavole ad alcuni personaggi che sono particolarmente legati a questo tema.

Mangiafoco


Il primo di essi è Mangiafoco, il burattinaio del Gran Teatro dei Burattini, deciso a utilizzare  il legno di Pinocchio per portare a termine la cottura della sua cena. Il nome del burattinaio è già evocativo del rogo che attende Pinocchio: il fuoco che qualche capitolo prima ha divorato i piedi del burattino minaccia ora di bruciarlo completamente. La morte sfiora Pinocchio per la prima volta, ma è una morte teatrale, recitata, come si conviene al luogo - un teatro - e ai personaggi coinvolti - un burattinaio e dei burattini. Mangiafoco è un Orco, ma, scrive Manganelli, «patisce una sorta di dicotomia. Orco deve esserlo, si sa, ma della sua parte d’Orco si servirà a beneficio dell’inconfessabile fondo di brav’uomo». Ne nasce quella che il parallelista interpreta come una recita improvvisata e insieme già scritta: nel momento in cui Pinocchio accetta la morte, si adegua alla parte dell’eroe e viene graziato, come impongono i cliché teatrali: «forse nemmeno Mangiafoco sperava tanto», conclude Manganelli.

Il grillo parlante



Il secondo personaggio è il Grillo. Questa volta la morte non è minacciata, ma inflitta: Pinocchio è così infastidito dai rimproveri del Grillo-parlante da uccidere il pedante insetto assestandogli una martellata in testa. Questo gesto sembrerebbe l’atto conclusivo della «storia di Pinocchio col Grillo-parlante» (così la chiama Collodi nella rubrica del capitolo IV). Ma il Grillo è, evidentemente, un personaggio più complesso di quanto sembri: la sua ombra torna dalla morte, nel capitolo XIII, per cercare di fermare Pinocchio ed impedirgli di raggiungere il Campo dei Miracoli. Pinocchio non è sorpreso di rivedere il Grillo; il lettore adulto, d’altra parte, non può che trovare inquietante questo ritorno dall’aldilà. Si fa strada il sospetto che questo ambiguo personaggio sia da sempre compromesso con la morte e che, al di sotto della sua irrefrenabile vocazione pedagogica fatta di frasi fatte e luoghi comuni, si nasconda qualcosa di più misterioso. Il dubbio si fa certezza nella lettura di Manganelli, che trova nel «fioco monito del grillo» la conferma del fatto che la destinazione ultima di Pinocchio non sarà il Campo dei Miracoli, ma «il paese dei morti». Il Grillo è fedele a se stesso e continua a consigliare Pinocchio, ma stavolta «dà il consiglio di tutti i morti a tutti i vivi, il consiglio disperato e impossibile: “ritorna indietro”».




Il gatto e la volpe

È un monito che Pinocchio non ascolterà. Il burattino proseguirà il suo cammino e incontrerà  nel bosco ancora una minaccia di morte: gli assassini. La loro identità non ci è mai esplicitamente svelata; facile però indovinare, dietro il travestimento dei cappucci, il Gatto, tradito dalla sua tendenza all’ecolalia nei dialoghi e dal fatto che, durante la collutazione con Pinocchio, perda uno dei suoi zampetti, troncato da un morso assestatogli dal burattino. Manganelli non trova troppo sorprendente che Pinocchio non «abbia sospetti, neppure più tardi, sui due “assassini”», perché «se potesse mettere insieme gli indizi Pinocchio sarebbe altra cosa; non sarebbe quell’essere impegnato in una capziosa collaborazione con l’errore, l’equivoco, la scelta sbagliata». Identificato il Gatto, nutriamo pochi dubbi sull’identità dell’altro assalitore. È in questa loro veste di assassini, più che in quella di suadenti truffatori, che Marisa Bello e Giuliano Spagnul sembrano rappresentarli nella tavola intitolata Il Gatto e la Volpe: nel quadro, infatti, vediamo il burattino sollevato da terra, particolare che allude all’impiccagione che Pinocchio subirà per mano dei suoi due aguzzini, immerso in una tenebra che sembra evocare il «buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì»  in cui avviene l’aggressione a Pinocchio. Nell’economia del racconto, il Gatto e la Volpe sono dei veri e propri strumenti di morte; il loro ruolo è unico e speciale: sono infatti gli unici due personaggi che riescono, in qualche modo, ad uccidere Pinocchio.

La fata alchemica



Ma prima che i due assassini riescano nel loro intento, Pinocchio tenta la fuga. È in questa circostanza che incontra per la prima volta un altro personaggio centrale del romanzo, a cui i due artisti dedicano addirittura due tavole. Si tratta della Fata - che a questo punto della storia si presenta a Pinocchio nella veste di «bella Bambina coi capelli turchini». Manganelli, nel Pinocchio parallelo, conia per lei l’epiteto di «Stregofata», a sottolinearne l’ambiguità di fondo: personaggio enigmatico e arcano, la Fata imprigiona Pinocchio in un gioco di sevizie e dolcezze, di condanne e perdoni che proseguirà, da qui in poi, fino alla fine del libro. Manganelli la chiama anche, altrove, Fata alchemica, ed è così che Marisa Bello e Giuliano Spagnul intitolano una delle loro tavole. La Fata-bambina si rivela, fin dalla sua apparizione, in intimità con la morte: si rifiuterà infatti di aiutare Pinocchio che bussa alla sua porta sostenendo di essere morta e, così facendo, consegnerà il burattino agli assassini e alla sua fine. «Possiamo supporre», si chiede Manganelli, «che la Bambina sia la morta signora dei morti, la lunare regina delle tenebre? Essa è gelida, ignara, indifferente; morta da sempre, non capisce la morte, né il terrore di Pinocchio».
Il Gatto e la Volpe acciuffano finalmente Pinocchio e lo impiccano: è un’esecuzione dal sapore evangelico (molto è stato scritto sulle possibili letture cristologiche di Pinocchio), che si chiude con un’invocazione al padre («Oh babbo mio! se tu fossi qui!…») chiaramente allusiva. Nel romanzo di Collodi la morte - il Grillo ce l’ha insegnato - sa essere provvisoria, e questa morte in particolare, così simile a una Passione, già promette una resurrezione: ritroveremo Pinocchio, vivo e vegeto, nel capitolo seguente, salvato dalla Fata e accudito, tra altri medici, proprio dal Grillo-parlante che, chiosa Manganelli, «dalla morte nella stanzetta di Geppetto, si è fatto un gran viaggiatore».

La prima parte qui: http://marisa-bello-e-giuliano-spagnul.blogspot.it/2017/05/andrea-maiello-pinocchio-un-libro.html 
(a breve la terza e ultima parte)

lunedì 29 maggio 2017

Andrea Maiello: "Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli" 1^ parte

"Parafrasando un detto di Manganelli: 'Non riesco a pensare una vita senza sogni, come mi è impossibile immaginare una moneta che abbia solo il diritto e sia priva del rovescio', potremmo affermare: 'Non riesco a pensare ad una vita senza arte' e, trattandosi di Manganelli, 'mi è impossibile immaginare una vita senza menzogna'.
Amore, quello per l'arte, assolutamente ricambiato: i suoi migliori amici erano pittori, gli unici veramente in grado di 'vedere' e non semplicemente di 'leggere' gli scritti del Manga, il più immaginifico degli scrittori.
Per questo abbiamo voluto (o l'ha voluto il Manga, questo è tutto da definire) riunire tutte o almeno la maggior parte delle opere ispirate ai suoi libri (sempre che, trattandosi di lui, di libri si possa parlare). Opere dell'epoca e attuali. Opere di artisti che hanno letto Manganelli, e da allora non sono stati più gli stessi.     Lietta Manganelli

Le opere esposte sono di: Nanni Balestrini, Paolo Beneforti, Paolo della Bella, Giuliano Grittini, Gloria Leonetti, Giuliana Maldini, Franco Nonnis, Gastone Novelli, Giovanna Sandri, Marisa Bello e Giuliano Spagnul.


Urbino. Casa della Poesia, sala dedicata a Pinocchio

La mostra su “Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli” di Marisa Bello e Giuliano Spagnul è stata esposta per la prima volta alla Libreria Utopia di Milano nel 2007 e successivamente alla Galleria degli artisti nel 2008. In questa seconda occasione Andrea Maiello (dottore di ricerca in italianistica e autore di alcuni saggi sul Pinocchio di Manganelli) è intervenuto con una serie di paralleli tra l’opera letteraria e le tavole esposte. Qui di seguito riportiamo alcuni stralci dell’interessante intervento:

Italo Calvino scrive che Giorgio Manganelli, nel suo Pinocchio: un libro parallelo, usa l’opera di Collodi «scrivendoci un libro sopra senza cancellare il libro che c’è sotto». È una definizione impareggiabile, che descrive bene il difficile equilibrio con cui Manganelli riesce ad edificare un intero libro sui vuoti: eleggendo a oggetto privilegiato della sua attenzione ciò che Collodi non scrive, Manganelli esplora nuovi itinerari di lettura fino a costruire nuovi rapporti tra i personaggi, a schiudere  significati inattesi e a disegnare trame imprevedibili. In questo percorso, scrive Manganelli, è «tutto arbitrario, tutto documentato»: non ci sono punti fermi, ma solo richiami ed echi da cui, di pagina in pagina, il lettore si lascia attraversare. Rappresentare il libro di Manganelli costituisce quindi, prima di tutto, una sfida, perché significa confrontarsi con un materiale narrativo difficile da dominare, fatto più da larve che da personaggi, più da allusioni che da eventi. È un libro tutto incentrato sul potere della lettura, che si libera con forza tanto maggiore quanto più gli iati e i silenzi del testo di Collodi si fanno marcati. Marisa Bello e Giuliano Spagnul raccolgono molto bene questa sfida, riuscendo pienamente nel difficile intento di rappresentare i silenzi e i vuoti tra cui si fa spazio il testo di Manganelli. Non è impresa facile, perché richiede la misura di “disegnarci sopra senza cancellare il libro che c’è sotto”, per parafrasare Calvino. È una misura che i due artisti riescono a trovare e a non perdere mai, di tavola in tavola; per questo è possibile percorrere le opere di Marisa Bello e Giuliano Spagnul con le stesse strategie con cui è possibile orientarsi nel Pinocchio parallelo: individuando cioè alcuni temi fondamentali e inseguendone gli echi quadro dopo quadro.

alla catena
Metamorfosi
Il tema della metamorfosi è forse quello più rappresentativo della vicenda di Pinocchio: nell’immaginario comune, infatti, la storia di Collodi è prima di tutto la storia di un burattino che diventa bambino. La metamorfosi finale di Pinocchio, dal sapore pedagogico e un po’ stucchevole, è certamente quella che maggiormente rimane impressa nella memoria dei bambini, che, prima ancora di diventare lettori, si sentono raccontare la storia del burattino dagli adulti. Eppure la trasformazione in essere umano non è l’unica trasformazione vissuta da Pinocchio.
La prima delle tavole che fa riferimento alla metamorfosi è Alla catena. Apparentemente sarebbe inappropriato parlare di metamorfosi, perché in questa tavola, come è evidente, è rappresentato il burattino. Tuttavia le metamorfosi, in Pinocchio, avvengono in due modi diversi: ci sono metamorfosi vere e proprie, fisiche, che trasformano il burattino in un essere diverso, e metamorfosi che hanno un valore simbolico o allusivo e che - non meno importanti delle prime, soprattutto agli occhi del parallelista - non intaccano l’aspetto di Pinocchio.  Alla catena rappresenta un episodio in cui Pinocchio è costretto a fare il cane da guardia per sostituire Melampo, il cane di un contadino a cui Pinocchio ha cercato di rubare dell’uva (siamo nel XXI capitolo). Il burattino non cambia fisicamente - non diventa cioè qualcosa di diverso dal legno - ma, messo alla catena, appunto, si trasforma simbolicamente in un animale, e uscirà cambiato da questa esperienza: imparerà che la fame non giustifica una condotta disonesta, che non è bene venire a patti con chi ruba e che non è utile né dignitoso infangare la memoria dei morti. È solo una delle tante trasformazioni che subirà il protagonista, che sembra incapace, nel corso di tutte le sue avventure, di rimanere ancorato a una forma stabile, ad una definizione di se stesso. È, questa capacità “mercuriale” del burattino, una delle doti che più colpiscono Manganelli, che segue Pinocchio nelle sue varie avventure cercando di cogliere il valore segreto e iniziatico di ogni trasformazione. Non sfugge infatti a Manganelli che «Pinocchio è in grado di essere tutto ciò che gli si chiede» e che le sue trasformazioni «lo interpretano e vogliono essere da lui interpretate; come accade delle trasformazioni che non avvengono: ad esempio, diventar scolaro, o burattino della compagnia drammatico vegetale».

il pescatore verde
Anche la tavola intitolata Il pescatore verde evoca un episodio che Manganelli annovera tra le metamorfosi di Pinocchio. Siamo nel XXVIII capitolo, in cui il burattino corre il rischio di essere messo in padella dal pescatore verde, indifferente alle proteste del povero Pinocchio, che viene scambiato, tra acciughe e naselli, per un raro esemplare di “pesce burattino”. L’episodio, per un lettore tradizionale, risulta più comico che significativo: non è così, però, per il parallelista, che non può sottovalutare una simile regressione a pesce - per Manganelli, infatti, già la sostituzione di Melampo aveva costituito «il primo passo degradante verso la condizione umana». E non è un caso (almeno per Manganelli) che anche in questo episodio vi sia la presenza di un cane, Alidoro, che, alla fine, salverà il burattino dalla padella. La classificazione del pescatore verde è letta da Manganelli come una fase rituale che anticipa di poco un’ulteriore «trasformazione simbolica». Infarinato per la frittura, Pinocchio pare, scrive Collodi un «burattino di gesso»: essi, chiosa Manganelli, «nella gerarchia burattinesca erano assolutamente imparagonabili, infimi, a petto dei burattini di legno». Secondo Manganelli, quindi, «prima di essere gettato nell’olio bollente, Pinocchio subisce una degradazione simbolica».


il paese dei balocchi
Il tema della metamorfosi attraversa altre due tavole di Marisa Bello e Giuliano Spagnul. Si tratta di due opere che, quasi bilanciando idealmente le precedenti, sono dedicate a trasformazioni che coinvolgono il corpo del burattino in senso proprio. Nella tavola intitolata Paese dei balocchi è rappresentato il celebre episodio del capitolo XXXII in cui Pinocchio, durante il soggiorno al Paese dei balocchi, si trasforma in ciuco. È un episodio che tutti ricordiamo, perché rappresenta un perfetto contrappasso per il burattino che ha marinato la scuola per seguire Lucignolo. Pinocchio è un libro che, prima ancora di essere letto, ci viene raccontato dagli adulti, che enfatizzano volentieri una trasformazione che sembra punire la negligenza di un burattino che ha marinato la scuola per seguire Lucignolo. L’attenzione di Manganelli è naturalmente attratta da ben altro: il parallelista sottolinea immediatamente e con solennità, nell’incipit  del capitolo, che «Pinocchio è sulla soglia della prima trasformazione corporale», che lo porterà ad attraversare la soglia, mai prima varcata, che divide il mondo vegetale da quello animale.

la morte di Pinocchio

La seconda tavola dedicata a una metamorfosi corporale è quella che racconta l’ultima trasformazione di Pinocchio: quella da burattino a bambino. È senza dubbio la metamorfosi più celebre dell’intero romanzo, ma allo stesso tempo la più controversa. Tralasciando le ragioni filologiche che portano a sospettare di questo finale (Collodi scrisse di non ricordare di aver chiuso in questo modo il libro), alla metamorfosi conclusiva di Pinocchio il lettore può reagire in due modi: salutare il nuovo corpo di bambino come il premio finale per la buona condotta del protagonista, o considerare il burattino abbandonato sulla sedia come una innocente vittima sacrificale. Manganelli, dal canto suo, scrive esplicitamente che «la forma della trasformazione per noi è la morte: e le ultime righe, che trattano della trasformazione di Pinocchio, raccontano la morte di Pinocchio»: ecco allora che non c’è titolo più appropriato, per la tavola dedicata alla metamorfosi finale del burattino, di quello scelto da Marisa Bello e Giuliano Spagnul: La morte di Pinocchio.