giovedì 8 novembre 2018

La camera chiara: Ibridazioni dall'11 al 23 dicembre 2018



Ibridare vuol dire mescolare cose diverse e porta con se, inevitabilmente, un senso di impurità, di contaminazioni che aprono a una prospettiva di futuro incerto e pericoloso. Non è un caso che i collage nascano come pratica sperimentale all’interno di quelle avanguardie artistiche che hanno sancito la frattura, mai più sanata, all’interno dell’arte tra un procedere progressivo di evoluzione stilistica e quella serie di catastrofi continue che dominano ormai da oltre un secolo il nostro attuale fare artistico.                                                                                                                                           In uno spazio come La camera chiara che si pone, proprio per il suo nascere all’interno di un laboratorio di stampa chimica, al riparo dalla ormai totale egemonizzazione del mondo digitalizzato questo nuovo lavoro di ibridazioni tra fotografia, disegno e materiali vari vuole essere una nuova piccola tappa verso un’idea di creatività il più possibile libera dai dettami e dalle costrizioni che questa parola ha finito per assumere oggi.  Un mondo in cui l’estetica sembra prefabbricata e pensata a proprio uso e consumo, che sembra voler produrre originalità ma che rimane invece invischiato dentro la ripetizione del sempre uguale che si vuole sempre diverso.                                      Fabbricare nuove immagini ha senso, per noi, solo nella sua accezione di creazione di possibili associazioni che permettano nuovi modi per vedere ciò che pur essendo visibile non è immediatamente percepibile.                                                                                                                   È il vecchio gioco dell’arte, mai fine a se stessa, che stabilisce ponti tra il nostro sentire, empatizzare, collegare immagini a sensazioni e a nuovi significati, insomma a ibridare materia e pensiero per rendere possibile ciò che ancora non è ma che potrebbe essere.

La camera chiara di via Giorgio Jan 10 a Milano. Inaugurazione martedì 11 dicembre ore 18,30.
Dal 11 al 23 dicembre - orari lun.-ven. 9-13 e 14,30-18 sabato 9-13































sabato 2 giugno 2018

Con Primo Moroni e Antonio Caronia


// CON PRIMO MORONI E ANTONIO CARONIA //
Mostra a cura di Giuliano Spagnul e Marisa Bello
Dal 31 maggio al 29 giugno 2018
c/o Fondazione MUDIMA, mudima.net
Via A. Tadino 26, Milano | 02.29409633
GIO 31.05 | CON PRIMO MORONI E ANTONIO CARONIA: INAUGURAZIONE
h18.30 | Presentazione della mostra e delle attività (a cura di G. Spagnul, P. Gallerani e A. Di Monte).
h19.00 I Piero Lenardon legge Antonio Caronia, Primo Moroni, Carlo Emilio Gadda.
h20.00 | Raffaele RAF Scelsi, Primo Moroni interprete dei comportamenti metropolitani nella modernità.
h20.45 | John N. Martin, Emozionale 1°.0. Ricordando La luna vent’anni dopo.
SAB 09.06 | SFIDE DEL PRESENTE
h11.00 | Ignazio M. GallinoMatteo GuarnacciaFranco SchironeDinnni Cesoni, Giorgio PisaniVenti anni di Controcultura – frammenti dell’underground italiana 1965-1985.
h12.15 I Alberto Abo Di MonteAbi NormalCascina Autogestita Torchiera Senz’Acqua. UAU: l’archivio di Un’ambigua Utopia. Come ci siamo riusciti.
h15.00 | Nico GalloDaniele BarbieriGennaro FucileGiuliano Spagnul. La sinistra, la fantascienza e Antonio Caronia. Marco Philopatlegge alcuni inediti di Un’ambigua utopia.
h16.30 | Tiziana Villani, La città: geografie esistenziali e materialismo degli affetti.
h17.30 | Off Topic Lab, Un’ambigua ucronia, performance.
h18.30 | Canedicoda, concerto elettronico.
GIO 21.06 | PRIMO E ANTONIO
h18.30 | Bruna Miorelli, Primo Moroni, più di un divulgatore.
h19.30 | Nanni Balestrini, su Primo Moroni e L’orda d’oro.
h20.00 | Eleonora Fiorani, La sfida allo sguardo del corpo virtuale.
h20.30 | Officina Multimediale, Metrature del presente: Primo, Antonio e una chiave a brugola.
// LA MOSTRA //
31 maggio // 29 giugno
Dal lunedì al venerdì
Dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 19
Maggiori informazioni sulla mostra a questo indirizzo

Inaugurazione "Con Primo Moroni e Antonio Caronia" alla Fondazione Mudima di Milano



Riporto qui alcune considerazioni che tra la fatica e l’emozione del momento ho cercato di dire all’inaugurazione della mostra:

Organizzare questa mostra e la serie di eventi che seguiranno è stato particolarmente faticoso e impegnativo: disguidi, equivoci, vecchie ruggini, una fatica ‘del fare’ rispetto a cui i due protagonisti, Primo e Antonio, con la loro storia, hanno contribuito ad acuire. Responsabile, innanzitutto, la loro inattualità: non riusciamo a collocarli nel nostro presente, né lasciarceli alle spalle, essi si pongono davanti a noi senza indicarci alcuna via maestra ma solo una ricerca che si vuole continua e incessante a cui tutti noi, orfani inconsolabili delle utopie, non siamo affatto avvezzi. E poi quell’essere scomodi a tutti  nel loro privilegiare il fare rete e tessere relazioni, che è pratica assai più difficile del dividere, dividerci (se non proprio picchiarci come si faceva di consuetudine in quei, pur esaltanti, anni Settanta) così cara a noi di sinistra. Non voglio parlare qui della mostra, potete vederla da voi e giudicarla, voglio unicamente accennare brevemente a due insegnamenti (tra i tanti possibili) che abbiamo appreso nel lavoro su questo lungo collage sull’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni (di cui, per inciso, ricorrono i trent’anni dalla prima pubblicazione). Il primo è sulla necessità di non voler separare , in quegli anni di rivolta che vanno dagli anni Sessanta ai Settanta, i buoni dai cattivi. È tutta storia nostra nel bene e nel male di cui non dobbiamo rendere conto ad altri che a noi stessi. Anni di piombo è la definizione con cui i nostri avversari hanno tentato di ridurre la primavera in un gelido inverno. Possiamo dire oggi, guardando all’esempio dei No Tav, non ci sono riusciti! Il secondo è la legittimità del parlare di quegli anni da parte di tutti. Non  esiste un punto di vista privilegiato dal fatto di aver vissuto quegli anni. Non occorre esserci stati né tanto meno essere degli storici accreditati per prendere posizione. Ciò che conta, e vale per tutti, è la capacità di rapportare i fatti storici al proprio vissuto, alla propria esperienza. Portare l’astratto, a cui inevitabilmente appartiene la memoria, il passato, al concreto, a ciò che si sta vivendo, sperimentando ora.  ‘L’oltraggioso soggettivismo di quelle carte’ autorizza il desiderio di prendere posizione da parte di tutti, giovani o vecchi che siano. Questo collage è stato esposto la prima volta nel 1999 al Leoncavallo grazie soprattutto alla compagna Melina Miele (alla cui memoria dedichiamo idealmente la nostra mostra) in occasione del 1° anniversario della scomparsa di Primo Moroni in un grande allestimento in cui lo abbiamo associato a un grande romanziere-filosofo, a lui molto caro, Philip Dick e al nostro, per modo di dire, Foucault italiano: Ernesto De Martino. In quella occasione Antonio Caronia ci scrisse questo sul libro dei commenti:

“Grazie per un tuffo nel passato, che non esiste, e una proiezione nel futuro, che non esisterà. Grazie per aver assemblato dei fatti della mia vita assemblando la vostra. Grazie per il coraggio dei piccoli vasai, dei piccoli costruttori di giocattoli, dei piccoli artigiani, dei piccoli assemblatori di parole. 
Io non sono niente di più.                                                                                                                            
Primo e Philip non ci guardano da nessun cielo: sono diventati dei piccoli pezzi di noi.”

Anche Antonio da 5 anni non c’è più, anche lui è diventato un piccolo pezzo di noi.
Con Primo Moroni e Antonio Caronia
Grazie


Il programma e tanto altro qui: https://moroniecaronia.noblogs.org/  

sabato 23 settembre 2017

Opere da viaggio: un lavoro a quattro mani



Opere da viaggio è un lavoro a quattro mani con una tecnica che un po’ semplicisticamente si potrebbe definire collage. In realtà più propriamente sono opere-oggetto che ibridano fotografie (provini e frammenti fotografici) con disegni, schizzi e altri possibili materiali vari; il tutto montato su ex contenitori trasparenti per diapositive. La suggestione di una forma libro è stata inoltre accentuata da un retro-copertina ricavato da elementi vari (un’intera stampa fotografica, cartine geografiche, ecc.). L’origine di questo lavoro si può far partire da una produzione di ‘scatole poetiche’ all’interno di un’installazione “Omaggio a Primo Moroni: Philip Dick i centri sociali e gli ombrelli di luce” (qui)  al Centro Sociale Leoncavallo nel 1999. Una ricerca proseguita poi nei piccoli collage “Opere di piccolo formato” alla Galleria degli Artisti nel 2012 (qui) e nella mostra “Noi non camminiamo mai soli” (qui) alla libreria Isola nel 2015. Piccole opere, piccoli oggetti che richiedono una certa attenzione e una lentezza nella visione da cui le tendenze moderne dell’arte spesso tendono ad allontanarci. 


Ma cosa significano e, soprattutto, come li fate? Ci viene spesso chiesto. C’è un progetto iniziale? Come si dispiega il racconto, sempre che un racconto vi sia, soggiacente, all’intersecarsi di queste immagini? La nostra ricorrente risposta, in questi casi, è che il significato lo dà chi osserva l’opera; il racconto chi la legge in quel momento. Noi abbiamo operato per suggestioni, per assemblaggi istintivi, spontanei, costringendoci a selezionare in modo sempre più stringente fino al risultato che avvertiamo più giusto. Solo istinto allora? Puro inconscio? Sì, tenendo conto però che l’inconscio di chi lavora artisticamente è il prodotto di una storia personale di lavoro costellata di studi, tentativi, errori, prove e ancora prove. Un piccolo o enorme, a secondo dei casi, patrimonio di lavoro che fa passare per istintivo e immediato un modo di operare che in realtà è ben più mediato e meditato. E il racconto, la narrazione che si avverte scaturire da queste immagini assemblate assieme? È solo ausilio di chi osserva e legge dall’esterno? E per i produttori, per chi fa l’opera? Anche chi fa può in una certa misura (se pur con più difficoltà) distanziarsi e offrirsi al libero gioco delle interpretazioni, chiarendo altresì che le proprie non possono che essere, paradossalmente, più opinabili, in quanto provenienti proprio da chi è coinvolto come autore. L’autore fa, non sa; offre un significato che gli sfugge e che può ritornargli solo attraverso quei significati plurimi e diversi tra loro che osservatori esterni siano in grado, e vogliano, offrirgli. 




martedì 5 settembre 2017

Presentazione "Opere da viaggio"


Se guardiamo la fotografia nella sua dimensione fisica e emozionale e non semplicemente nel suo carattere di immagine riproducibile all’infinito, non possiamo non vedere quanto la sua chimica, il suo supporto materiale, il tempo di ripresa, di sviluppo, di trasmissione dell’immagine siano pervicacemente legati alla nostra corporeità tattile, olfattiva e a tutto il nostro sentire fisico, e ancora ai nostri tempi soggettivi, emozionali. Difficile vederne la continuità nel mondo “immateriale” e diffuso (nel proliferare dei più svariati mezzi di ripresa) del digitale. Un mondo legato ad un antico dio è morto e un nuovo dio, o forse più dei, ne hanno preso il posto. In questo lavoro che qui presentiamo, in una commistione a quattro mani tra fotografia e disegno, si è voluto evidenziare proprio il carattere di unicità della pratica fotografica nella sua breve ma intensa storia. Una unicità che può permettersi il confronto e perfino l’ibridazione proprio con la sua storica rivale: la pratica pittorica, piuttosto che con il suo presunto successore tecnologicamente più avanzato. Certo, stiamo parlando di una pratica, quella fotografica, finita; che ha possibilità d’avvenire solo in termini di nostalgia o di hobby con gusto retrò. Ma è una pratica la cui storia resta comunque inscritta nei nostri corpi novecenteschi e che resterà in quelli del nuovo millennio sotto forma di traccia, impronta indelebile nel percorso filogenetico della nostra specie. Opere da viaggio sono pertanto la memoria di un sentire e di un vedere non più attuali ma che continueranno a permanere come memoria del corpo. L’unione con la pratica artistica per eccellenza, quella capacità che risale agli albori dell’uomo: l’incidere segni e spargere colori su superfici materiali sta qui a rappresentare, in questi lavori ibridi, il senso di un viaggio che non può terminare se non con la fine del viaggio umano. Dentro plastificati facsimili di copertine di libri, in realtà vecchi contenitori trasparenti di diapositive, si dispiegano nuove configurazioni visive che annunciano un nuovo percorso di viaggio, quello delle memorie delle cose morte: la fotografia, in prima istanza, ma anche la pittura, almeno in quell’idea più consueta di pura imitazione del reale (distrutta fin nelle fondamenta da tutta la variegata esperienza artistica del Novecento). È un viaggio, qui esemplificato soprattutto dall’elemento fotografico più semplice: il provino a contatto, e dallo schizzo, disegno abbozzato e altri resti pittorici; elementi poveri per un percorso che si immagina lungo: il percorso delle sopravvivenze, dei resti e delle eccedenze che continueranno a insidiare, con esiti imprevedibili, un mondo futuro spettralmente dominato da un immaginario virtuale, tanto più immateriale quanto più innestato sotto pelle. Sotto quella nostra pelle che ancora ci ostiniamo a voler abitare. 


giovedì 22 giugno 2017

Andrea Maiello: "Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli" 3^ parte

Urbino: Casa della Poesia

Un terzo tema che attraversa le tavole di Marisa Bello e Giuliano Spagnul - e che permette di dividere i quadri in tre insiemi, tutti costituiti da quattro tavole - è quello della nascita. Se non stessimo parlando di Pinocchio, sarebbe stato naturale partire da qui: la logica impone che la nascita sia la premessa necessaria per la metamorfosi e la morte. Pinocchio, tuttavia, non è un libro che segue la logica, e il suo intreccio rende precaria ogni gerarchia. A ben pensarci la nascita di Pinocchio è già una metamorfosi: Geppetto costruisce un burattino, ma il pezzo di legno che compare all’inizio del romanzo può ascoltare, parlare, sentire dolore e solletico. Ha perfino dei precisi tratti caratteriali, visto che è dalla sua insolenza che nasce il bisticcio tra maestro Ciliegia e Geppetto. E ancora: nel finale del romanzo Pinocchio si addormenta burattino e si sveglia bambino in carne e ossa, ma la presenza del vecchio burattino inanimato sulla seggiola rende difficile capire da dove provenga il suo nuovo corpo e cosa sia accaduto di preciso (a rigore, il legno non si è trasformato com’era accaduto nel Paese dei Balocchi, tant’è che nel finale abbiamo due Pinocchio, uno di carne e uno di legno). Metamorfosi, morti, nascite si legano in modo così stretto, nel testo di Collodi, da rendere spesso difficile un’analisi separata dei tre temi.

C'era una volta


            La prima tavola in cui è possibile rintracciare il tema della nascita si intitola C’era una volta. Il titolo riprende l’incipit del romanzo, in cui Collodi, dopo aver utilizzato la formula introduttiva tradizionale delle fiabe, non resiste alla tentazione di destabilizzare il lettore presentando un protagonista del tutto insolito («C’era una volta…. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. — No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno»). È significativo che per la tavola sia stato scelto questo titolo, perché sottolinea bene, mi pare, la volontà di rappresentare non tanto la nascita del burattino (pur presente nel quadro), quanto l’origine della narrazione, che sarà la vera protagonista del libro parallelo. Manganelli si sofferma con attenzione su questa «frode iniziale», che «ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa»: proprio su questo re assente inizierà infatti a prendere forma la prima storia parallela. Ma non per questo dimentica il pezzo di legno: «quel legno», scrive Manganelli, «è materia che chiama la distruzione e la cenere, e insieme vuole diventare e trasformarsi». L’inizio della storia racchiude già tutto il complesso impianto simbolico che sarà al centro del libro parallelo, e porta in sé, in nuce, quella vocazione alla morte e alla metamorfosi che inseguirà Pinocchio per tutto il romanzo.

Nel paese di Acchiappacitrulli


            Acchiappacitrulli è la tavola dedicata al luogo in cui Pinocchio si reca, nel capitolo XIX, per denunciare il furto delle monete d’oro che il Gatto e la Volpe hanno realizzato ai suoi danni. Nel mondo alla rovescia di Acchiappacitrulli, essere un «povero diavolo» è una colpa: per questo Pinocchio, nel momento in cui chiede giustizia, viene arrestato e condannato a quattro mesi di prigione. Sarà liberato in seguito a un’amnistia, ma solo dopo aver assicurato al proprio carceriere di essere un «malandrino» e di avere quindi diritto alla scarcerazione. Come le morti e le metamorfosi, anche le nascite, in Pinocchio, possono essere simboliche, e dietro questa disavventura di Pinocchio Manganelli intravede una storia parallela. Nel mondo distopico di Acchiappacitrulli Pinocchio vive la sua catabasi, una degradazione dalla quale uscirà rigenerato. Della pena di Pinocchio, osserva Manganelli, «non sappiamo nulla, quasi fosse una sospensione di vita»: tornerà dunque alla vita solo quando la pena avrà fine. Il carcere è, per l’innocente Pinocchio, il contrappasso necessario per accedere simbolicamente ad una nuova vita.

Sapore di madre


            Il tema della nascita è evocato fin dal titolo nella tavola Sapore di madre, la seconda che Marisa Bello e Giuliano Spagnul dedicano alla Fata, uno dei personaggi più affascinanti del libro di Collodi. «Dovunque sia», scrive Manganelli, «in questo libro senza Re, essa è la Regina, la Regina solitaria ed infeconda, la Signora degli animali, la vecchina, la donnina stanca sotto il peso delle brocche, la padrona della Lumaca, la Bambina morta; ma anche, la metafisica adescatrice di un fratellino, un figlio». La Fata è ubiqua, in Pinocchio: anche quando è assente, se ne percepisce la presenza o se ne sospetta l’intervento, spesso mediato dagli animali che mostra di saper governare secondo i suoi desideri. L’oscuro rapporto che lega Pinocchio e la Fata attraversa tutto il Pinocchio parallelo e occupa alcune delle sue pagine più belle. Manganelli riconosce tra Pinocchio e la Fata un legame occulto: la Fata era Bambina ed è cresciuta, a differenza di Pinocchio, che vorrebbe crescere e non può. «Entrambi mancano, dai lati opposti, l’umano» e «questa posizione intermedia, centrifuga, li lega duramente». La vocazione alla maternità della Fata trova un destinatario perfetto in Pinocchio, che non è mai stato generato e che  per tutto il romanzo sarà irretito dalle dolci sevizie dell’unica madre che gli è possibile.

Il pescecane



                L’ultima tavola, intitolata Il Pescecane, è dedicata a uno degli animali più rappresentativi del romanzo di Collodi: è nel ventre di questo pesce, infatti, che si conclude finalmente la ricerca di Geppetto. Ma il  Pescecane è anche uno dei personaggi più terribili, mostruoso fin dalle descrizioni con cui viene evocato nei capitoli precedenti, che lo rappresentano «più grosso di un casamento di cinque piani». il Pescecane è animale brutale e violento: noto tra al Delfino per la sua ferocia, ci viene presentato addirittura con un soprannome («l’Attila dei pesci») che si è guadagnato «per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità». Un simile dispensatore di morte appare del tutto agli antipodi rispetto al tema della nascita. Eppure il Pescecane è l’unico personaggio che abbia in un certo senso partorito Pinocchio, portandolo alla luce dal suo ventre. Pinocchio, scrive Manganelli, «è immerso in un corpo, nei suoi umori viscidi; gli è stata imposta un’esperienza fetale, che deve subire […]. Il Pescecane appare come una versione infinitamente fonda della madre, qualcosa di casualmente gravido, gestante degli abissi, bocca divorante navi e vegliardi e burattini, orifizio che, negli stessi singulti della decadenza, assonnatamente genera». Ed ecco che Pinocchio, infine partorito dal Pescecane, torna al mondo mutato nell’animo, pronto finalmente ad assumere il ruolo di figlio nei confronti di Geppetto e della Fata. Il capitolo successivo lo vede prendersi cura di entrambi diligentemente, con abnegazione e spirito di sacrificio: questo parto paradossale - il solo in qualche modo confacente alla sua natura eccentrica - lo restituisce al mondo profondamente cambiato. Rinato, trasformato, o forse in qualche modo già morto: un bambino vero prenderà presto il suo posto e del vecchio Pinocchio non rimarrà che «una reliquia», «una salma». Ma, conclude Manganelli, «quel metro di legno continuerà a sfidarlo».